reviews JEALOUSY PARTY Again

BLOW UP
119 Aprile 2008
“Now” era stata la prima uscita in cd full length, due anni fa; “Again” arriva adesso a confermare la formidabile bontà e unicità del progetto fiorentino. Ai comandi, tutti: i membri storici WJ Meatball (mix), Mat Pogo (voce e mix) ed Edoardo Ricci (clarinetto, trombone e sax contralto), e i membri aggiunti Jacopo Andreini (batteria, piano, chitarra), Jimmy Gelli (mix, lap top) e Andrea Caprara (basso e sax tenore); manca qualcuno rispetto alla prima uscita ma altri si aggiungono e il travaso è indolore. La musica del CD però non cambia molto, pare solo più propensa a farsi spappolamento, sfasatura, radicale decostruzione ritmica di un qualcosa che una volta poteva essere funk: ora in una maniera mediana tra Super_ Collider e BARK! (come accade di pensare ascoltando il singhiozzo errebì di “Amaranta’s Dance” e gli scatafasci di “JP Punca for Trombones”), ora con una scrittura che rimanderebbe ad una ballad (“Play On”), o ancora, più esplicitamente quando il grasso dei timbri bassi arriva a penzolare fuori dai pori (“Target Boy” fa tornare alla memoria le spastiche andature di Ian Dury). Un simile trattamento di revisione viene applicato anche alle quattro cover: “No Melody” di Kevin Coyne, “Stamps” di Steve Lacy, ” Echoes of Harlem” di Duke Ellington e “Eclipse” di Charles Mingus, tutte masturbate con testarda convinzione tra laptop fumigante e squarci di fiati che si sciolgono come sale su ferite non meglio né altrimenti risolvibili. Lo spazio per la voce stavolta è un po’ meno ampio e i paralleli con Phil Minton meno ovvi; Mat Pogo vira dalle parti di un hip hop che si riscopre modello di ‘ritmo puro’ senza tempi né tempo (ora più sulle orme di uno Stratos perduto nel nulla, senza scampo né redenzione neppure da se stesso). Il pezzo clou del disco è la fluviale “Il danno alla fiera”, metastasi strabordante di mille imput diversi e picco creativo di un’arte povera che merita di essere guardata come una delle più alte espressioni dell’improv-‘rock’ prodotto oggi in Italia. Che poi significa, dopo dischi limitrofi come quelli di 7k Oaks e Tanake, il miglior improv -‘rock’ in assolutodella scena internazionale: qualcuno, piano piano se ne dovrà pur accorgere. (8)
Stefano I. Bianchi

segnalato anche nella radiozine di Blow Up
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SANDSZINE
Avrei potuto continuare a collocare i dischi dei Jealousy Party al top di ogni mia classifica annuale di gradimento (così come ho già fatto per il precedente “Now”) ma se non avessi avuto la fortuna di vederli da vivo, non sarei mai stato in grado di comprenderne veramente la grandezza. L’ascolto del nuovo cd e la visione del loro live act (per la precisione, nella serata di apertura della rassegna Alter@, ad Avellino) a così poca distanza l’uno dall’altra, è stata una congiunzione rivelatrice. L’elemento performativo, sebbene se ne intuisca la caratura anche dal semplice ascolto del disco, è l’anello mancante per comprendere fino in fondo il ‘fenomeno’ Jealousy Party. La musica della band è un circo, trascinata dall’istrionismo irrefrenabile di Mat Pogo, indiavolato catalizzatore di folle, poeta e imbonitore; i suoi duetti con Edoardo Ricci (altro trascinatore), rimarranno stampati negli occhi e nelle orecchie degli ascoltatori per molto tempo ancora; per chi non c’era, basterebbe l’ascolto di play on, sul nuovo disco, con Edoardo Ricci al sax che fa il verso alla voce di Mat Pogo, e viceversa. Intorno ai due, si proietta il doppio lavoro ai ritmi, di Jacopo Andreini (alla batteria, nonché a chitarra e sax), da una parte, e dell’accoppiata Wj Meatball / Jimmy Gelli, dall’altra, questi ultimi due alle prese con le più svariate evoluzioni elettroniche (da ascoltare in proposito la jp punca for trombones, ovverosia la codificazione della ‘punca’, nuovo tipo di danza da loro inventato); completa la formazione della band, Andrea Caprara, che presta il suo contributo ai fiati e ad alcune parti basso/percussive. I Jealousy Party, nel nuovo “Again”, si presentano infatti come un grande combo a formazioni miste che oltre ai tre membri originari (Mat Pogo, Wj Meatball e Edoardo Ricci), ingloba definitivamente e a pieno titolo anche i temibili soggetti su citati (va segnalata inoltre la presenza di Matteo Bennici al Cello e al basso e, soprattutto, la JP Hornes, in pratica, un’orchestra aggiunta di soli fiati che fa la sua comparsa più volte nel corso del disco, composta oltre che da Andreini, Caprara e Ricci anche da Stefano Bartolini, Niccolò Gallio e Ruben Calandro). Il suono della band (sublimato nella lunghissima il danno alla fiera) è costantemente in evoluzione, irresistibilmente proiettato nel ricondurre sugli stessi binari il free jazz (le cover destrutturate di stamps di Steve Lacy, echoes of harlem di Duke Ellington, eclipse di Charles Mingus e no melody di Kevin Coyne), la performance teatrale, l’uso della parola e della beat poetry in un contesto avant (i Poetics di Mike Kelley non sono distanti), l’istrionismo vocale di gente come Phil Minton e David Moss, certo lavoro sui break elettronici, vicino ai Sinistri (si ascolti amaranta’s dance) e sui campionamenti e, infine, l’avant rock (la stravolta cover di stamps di Steve Lacy). Insomma, un altro capolavoro.
Alfredo Rastelli

RUMORE 198-199 luglio-agosto 2008

La “home band” del collettivo multimedia fiorentino Burp licenzia un secondo album in tempi più ristretti rispetto a Now (2006), uscito a distanza di ben dieci anni dai primi esperimenti del nucleo composto da WJ Meatball (percussioni, mixer e cd-players), Mat Pogo (voce) ed Edoardo Ricci (ance e ottoni). Qui in versione “big band” con sezione fiati guidata da Jacopo Andreini (anche alla batteria), più Andrea Caprara (bs) e Jimmy Gelli (laptop), i JP sintetizzano nelle brevi tracce in apertura il loro idiosincratico approccio free-form tutto scatti, contorcimenti e cut-up. Un jazz-rock radicale la cui cifra cartoonesca, evidente nelle acrobazie vocali, non deve far sottovalutare le doti tecniche e la spontanea temerarietà post-tutto. Che il progetto sia in grado di cimentarsi non solo in lazzi improvvisativi o derive beefheartiane (Target Boy), lo dimostrano riletture audaci ma ben progettate di standard di Ellington e Mingus (una struggente Eclipse), oltre ai personali rifacimenti di una canzone destrutturata di Kevin Coyne (No Melody) e dell’intricata Stamps di Steve Lacy. Non solo suonato live, il cd è frutto poi di un attento lavoro di taglia-e-cuci al mixer, ed è proprio nell’ambiziosa suite Il danno alla fiera (oltre 19′) che l’estetica “muscolata” del gruppo, coagulo di istintualità e organizzazione istantanea, raggiunge vette di sconsiderata eccellenza.
Vittore Baroni

KATHODIK
‘Now’ a suo modo è stato una bomba, fuori schema, fuori asse; stimolante insomma. Stomaco e cervello più che soddisfatti in quell’occasione. Casa/base Burp ha continuato a sfornare delicatezze spinose. Una meraviglia, in parte; sempre per troppo pochi. Questa pare essere la maledizione. ‘Again’ allora conferma e rilancia. Per qualità e quantità calorica prodotta/espressa, dovrebbe entrare difilato ai primi posti delle hit parade; sarebbe perfetto; più che meritato. Anche perché, volenti o dolenti; Jealousy Party scava un solco. E lo scavo pare appena cominciato. Come l’avvento dei Sinistri (la spremitura ritmica, l’osso che ne rimane…), uno shock nel panorama d’epoca (anche attualmente unici…). E vien il dubbio, la certezza, la conferma, che di Jealousy Party, in giro per il mondo non è che ce ne siano poi cosi tanti. Allora diciamo, che questo lavoro marca la differenza, non è questione di esser bello o brutto, è uno scarto; semplicemente. Scarto che lascia annichiliti, che rende obsoleti vari materiali altrui, marca la differenza appunto. E ridisegna le mappe, cosa, come; dove. La differenza che intercorre fra la ciccia vera ed una polpetta vegetale rinseccolita. Come lo Zorn che trattava il grind; più o meno ci siamo. Qualche Jealousy se ne è andato; altri se ne sono aggiunti. La pasta comunque è sempre quella. Rispetto a ‘Now’, pare esser stato messo a fuoco maggiormente l’impatto ritmico, disgregazione continua (molto Sinistri appunto…), i fiati sfiatano che è una bellezza, Matt Pogo c’è, cazzo se c’è, Phil Minton pare lentamente scomparire dall’orizzonte, molto più nero nell’emissione, la chitarra strimpella di sbieco (no wave dietro l’angolo), l’elettronica strappa, ricuce, sbrindella, s’abbatte di pensiero non torvo industriale, poi passa a scaricar bordate cubiste a stento trattenute, strappa, ricuce ed aggredisce, poi scompare anche volendo; tutto gira alla perfezione. L’inserimento delle cover facilità la comprensione di quel che accade nella visione Jealousy, Kevin Coyne, Steve Lacy, Duke Ellington e Charles Mingus, scorron via come ami messi a penzolare; noi felici abbocchiamo. Impro, senz’altro, ma ad un livello subumano, inaudita opera di arrangiamento immediato che lascia il segno. Linee funk secche e pestate, accenni lunari, parossismi di matrice industrial/rock (mi odieranno per questo…), l’hip hop dietro l’angolo (anche meno…), batti e ribatti mi vien in mente una versione cinico/apocalittica virata in salsa impro/avant/jazz/blues (o altre sigle di vostro gradimento…) dei Public Enemy. Jealousy Party sono, semplicemente; oltre. Ne più, ne meno. Necessario l’ascolto.
Marco Carcasi