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SEMERSSUAQ: SOMETHING ABOUT EVERYDAY PARAORDINARY

Agnese Fortuna, Novembre 2010


Con Semerssuaq è poesia: almeno nel senso che la sobrietà della composizione è di rigore. Ma per nulla in chiave minimalista. L’impressione è piuttosto quella di ritrovarsi d’un tratto a interferire con tutto lo spessore, l’intrico delle lunghezze d’onda del sostrato caparbiamente pulsante, incoerente, misconosciuto ma vitale, dell’ordinario. Universo sensitivo, dalle molteplici confluenze ricettive e reattive, in cui comprendiamo ora, con un senso di liberatoria esilarazione, di essere costantemente immersi interagendoci per lo più senza rendercene conto. Un universo pieno di vie d’uscita, pressoché infinite per ogni via d’entrata attraverso la quale vi siamo incappati: un inatteso ma creativo ventaglio di possibilità inesauribili. Rinvenimenti e scoperte che ci richiamano in causa tanto quanto mettono a nudo le nostre strategiche tentazioni di estraniamento.

Le tracce sonore si dilatano e si contraggono, coagulando insieme risonanze ed evocazioni. Non mere registrazioni di sense data, neppure solo occasionali modulazioni di reperti in presa diretta o raffinate eco di armonici psichici, biografici. Tutto questo c’è, ma nella forma dell’interazione, della reiterazione, della variazione, dell’assonanza per scarto e giustapposizione, dell’elisione e dell’interpolazione, tecnica frammentaria, a volte recisamente discontinua, che non teme affatto le rarefazioni. Il risultato è sì una sorta di mappatura lacunosa, ma del genere che rende vividamente il nostro permanere nella compresenza: lo spazio, l’ambiente ci viene rivelato come il nostro primo interlocutore. È piuttosto la soglia della nostra attenzione a determinare la tenuta del tessuto che il tempo, variamente percepito e determinato, va da sempre tessendo.

Qui certamente si dà voce all’implicito delle pratiche quotidiane apparentemente solitarie, marginali. E però scopriamo, con gran sollievo e ben più che filosofica meraviglia, che non siamo mai soli, mai inutilizzati: artefatti come i manufatti di cui facciamo uso, costruiti e riconvertiti come loro in ricettori, attivi nella tutta apparentemente subita passività che li esaurisce, li consuma, li destabilizza, li perverte trasformandoli in altro e altro ancora, del divenire. Che persino come inconsapevole proferta è pur parola – ma non sembra questo il caso –, (in/dis)articolazione: e la parola non è forse, come dice il poeta, l’unica nostra raison d’etre?

 

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